Articolo scritto insieme a Marina Cuollo
Cos’hanno in comune un’azienda che sceglie un packaging color arcobaleno per un prodotto o decide di usare la frase “amica dell’ambiente” per riferirsi a una bottiglietta di plastica, e un brand che di punto in bianco organizza una campagna di marketing sulla sessualità dei
disabili senza avere alcuna competenza in materia?
Esiste un comune denominatore in queste pratiche, ed è quello di sfruttare l’attivismo legato a specifiche tematiche di tipo sociale attraverso messaggi di marketing fuorvianti e poco attinenti con le vere ragioni di quel movimento. Possiamo riassumere tutto questo nelle
numerose varianti che accompagnano il termine “washing”, ovvero: lavare, nascondere.
Tra i “washing” più conosciuti c’è sicuramente il pinkwashing, termine coniato nel 1992 dal Breast Cancer Action per identificare quelle aziende che mercificano la lotta contro il cancro
al seno. Il termine si è successivamente esteso a quel femminismo annacquato e riproposto in chiave pop che sfrutta slogan di empowerment femminile con lo scopo di vendere prodotti, e ha poi raggiunto anche la comunità LGBTQIA+ che lo utilizza per descrivere tutta una
serie di strategie commerciali o politiche che si servono di appelli gay-friendly con l’intento di apparire progressiste e tolleranti, oggi maggiormente identificato come rainbow washing.
Allo stesso modo, il greenwashing definisce quelle subdole campagne di marketing e di comunicazione aziendale caratterizzate dal presentare strategicamente un’immagine
sensibile alle questioni ambientaliste, allo scopo di distogliere l’attenzione dagli effetti negativi che le proprie attività o i propri prodotti hanno sull’ecosistema.
Se ne parla pochissimo, ma anche la disabilità sta cominciando a subire “lavaggi”, ed è abbastanza comprensibile se consideriamo che negli ultimi tempi questo tema ha cominciato ad avere una certa risonanza mediatica. Ed è proprio quando meno te lo aspetti che la cultura abilista ci mette lo zampino cercando di capitalizzare le lotte altrui senza un’adeguata
preparazione.
A tal proposito, approfittiamo di una nostra esperienza per parlare proprio di quest’ultimo aspetto.
Poco tempo fa abbiamo ricevuto una mail da un noto sito di sex toys, recante le stesse identiche parole. Cercavano delle influencer con disabilità per promuovere una campagna su sesso e disabilità, e fin dalle prime righe abbiamo capito subito che qualcosa non tornava.
Innanzitutto si parlava di non voler “normalizzare o educolorare la disabilità”, ma di vedere ntale “limite” come possibilità di arricchimento e di crescita. Le persone scelte dovevano fornire fotografie, interviste e contenuti per i social di questo e-commerce, senza alcuna
retribuzione, mettendo la faccia e la loro disabilità in primo piano, parlando di esperienze riguardanti la loro sfera sessuale privata e personale (quindi non cercavano attivist* che potessero informare in modo giusto e generalizzato sui tabù e gli stigma sociali che ancora
esistono intorno ai corpi con disabilità).
Già dalle prime parole è evidente come il fine sia stato completamente sbagliato.
Sdoganare la disabilità è esattamente ciò cui tutt* noi aspiriamo, in una società in cui avere
una disabilità è ancora visto come qualcosa di strano, eroico e tragico al contempo.
L’abilismo si combatte esattamente normalizzando il più possibile la disabilità, e mai definendola negativamente come limite, soprattutto in un contesto così sfaccettato e dinamico come lo è la sessualità umana.
Guardando alle loro pagine, abbiamo riscontrato come non avessero mai parlato di disabilità e sessualità. Inoltre, questo progetto non era inserito all’interno di una campagna inclusiva in cui tutti i corpi venivano presi in considerazione e fossero ritenuti validi (abili e disabili, grassi
e magri, di etnie diverse, LGBTQIA+, eccetera) ma era relegata alla sola disabilità, così, out of the blue.
Un progetto del genere non poteva avere come obiettivo il fare cultura e informazione sulla sessualità viva, pulsante e perfettamente normale delle persone con disabilità, ma pareva invece diretto a stigmatizzarla, come se fosse qualcosa di assolutamente diverso da quella delle persone non disabili, una spettacolarizzazione da ricondurre al tanto famoso – e morboso – baraccone dei freaks.
Tutto il contrario di ciò che noi attivist* cerchiamo disperatamente di fare, ossia scardinare i pregiudizi sulle persone con disabilità, che sia in ambito sessuale o in qualsiasi altro.
Insomma, era palese che non avendo alcun fine anti-abilista e inclusivo, nessuna persona con disabilità era stata coinvolta nella scrittura e nell’ideazione di tale progetto.
La disabilità vende. La disabilità collegata con il sesso vende ancora di più (sicuramente anche a causa di quella curiosità morbosa che ancora aleggia intorno a ciò che non è considerato normale).
Eravamo davanti a un vero e proprio tentativo di disability washing.
Un altro aspetto del disability washing coinvolge l’uso della disabilità per promuovere innovazioni ingegneristiche e di design con obiettivi commerciali, senza però collaborare con le persone con disabilità o coinvolgerle nei piani di lavoro. Spesso infatti, molti progetti non
trovano un reale utilizzo nella comunità proprio perché soddisfano solo le esigenze di un numero ridotto di persone, oppure perché si tratta di soluzioni articolate a problemi che
potrebbero essere risolti semplicemente abbattendo le barriere architettoniche. Molti brand però, sono consapevoli che i progetti legati alla disabilità attirano la stampa e anche se il
focus aziendale non è realmente centrato su questi argomenti, ostentano legami minimi o inesistenti con l’accessibilità, approfittando della copertura mediatica che ne deriva, per poi far morire silenziosamente quei progetti nell’oblio. Ed è anche qui che la disabilità diventa un
mero esercizio di marketing.
Inoltre, come le migliori lavatrici offrono diverse tipologie di lavaggio, il “washing” dal marketing raggiunge anche altri settori. Uno di questi riguarda l’intrattenimento.
Il whitewashing è una pratica comune legata ai prodotti audiovisivi in cui attrici o attori bianchi interpretano personaggi non bianchi. Con modalità simili, anche il disability washing ha la sua variante cinematografica, dove personaggi con disabilità vengono spesso interpretati da attori normodotati.
Sappiamo bene quanto l’industria audiovisiva operi discriminazioni spesso e volentieri, ma mentre negli anni le rappresentazioni che riguardano genere, etnia e orientamento sessuale hanno guadagnato spazio, le persone con disabilità sono la minoranza meno rappresentata sullo schermo. I personaggi con disabilità sono già ruoli rari nel settore dell’intrattenimento e quando questi vengono affidati a persone normodotate la discriminazione è ancora più sentita.
È bene specificare che la rappresentazione mediatica di minoranze e gruppi marginalizzati, nel settore cinematografico così come nel marketing, è qualcosa di importante e necessario,
purché lo si faccia con criterio e consapevolezza, senza impossessarsi di battaglie altrui, senza svilire i messaggi con elementi banali che ne riducono la complessità.
È importante che alla base di qualsiasi progetto che vuole portare alta la bandiera dell’uguaglianza sociale ci sia il lavoro di persone realmente coinvolte in meccanismi discriminatori. Perché se vogliamo davvero cambiare le cose, dare a tutti la possibilità di far sentire la propria voce, è fondamentale non appropriarsi di una cultura che non ci
appartiene, cedere la parola e mettersi in ascolto.
Articolo pubblicato anche su Bossy
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